musica


Iersera son stato su a Trento, a trovar degli amici e a ber delle birre. Il sempre bellissimo Penasa, non appena mi ha visto, mi ha detto: “Toh, ti ho portato un regalo…” e poi ha simpaticamente aggiunto “cosí magari mi fai una recensione” – io questa battuta non l’ho mica capita per niente, ma mi ha fatto tanto ridere lo stesso.

BAUL’oggetto in questione, il regalo: un parallelepipedo a base quasi quadrata, molto appiattito, diciamo un centimetro circa lo spigolo più corto, tra i dieci e i quindici centimetri i restanti; una delle due facce più grandi presenta, su sfondo blu, il disegno di una specie di tirapugni giallo all’interno di un pentagono irregolare cavo, dal bordo rosso; in alto, in caratteri tridimensionali bianchi (ma con la profondità in nero) la scritta “superbau“, però in maiuscolo; in basso, sempre in maiuscolo ma in nero, la scritta “scfaed“; sulla faccia opposta, ancora su sfondo blu elettrico, un sacco di scrittine bianche che non sono stato a decifrare, e un bollino rilucente, ologrammatico, di circa 2 x 3 centimetri, con altre scritte ancora più piccole. L’oggetto appare ricoperto di una sottile pellicola trasparente tipo cellophane, molto delicata, tanto da deteriorarsi rapidamente: già penso di aver rovinato il bellissimo regalo, quando intuisco che a rompersi è solo un involucro protettivo, destinato comunque ad essere rapidamente smaltito in appositi contenitori. Ed in effetti, rimossa la pellicola, scopro con gioia che il misterioso parallelepipedo, su cui mi sto già interrogando intensamente, si apre come fosse un libro, anzi è proprio una specie di libro.

Un libro di bellissime poesie, immagino scritte da Penasa e i suoi amici, e di fantastici disegni. I disegni (i disegni degli amici di Penasa) sono pieni di ossi, denti e altre parti del corpo, di animali coloratissimi ed indaffaratissimi, di personaggi alle prese con i problemi più disparati: raccontano una storia affascinante per quanto ermetica in molti aspetti, una storia che è sicuramente la narrazione di una vita intensa, da leggere con avidità, per divertirsi ma anche per imparare. Possiamo immaginarlo come il viaggio iniziatico di un peluche, un peluche dapprima normale, ma poi, attraverso il contatto con scienziati pazzi, prostitute a pezzi, musicisti, preti, pianeti, organi riproduttivi, esplosioni, liquidi, mentine, eccetera.

E le poesie, nate forse originariamente come didascalia per questi disegni, rimandano indubbiamente alla stessa varietà cosmogonica di base. Poesie per animi gentili, che sanno racchiudere nel breve spazio di pochi versi tutta la delicatezza di un mondo che sboccia, e che sbocciando si fa appunto poesia.

Io penso che il messaggio profondo di questo libro, dei suoi disegni e delle sue poesie, non sia altro che un invito a riscoprire la bellezza nascosta del mondo.

Ultimo dettaglio, il libro è accompagnato da un simpatico gadget, un disco musicale in cui Penasa ed i suoi amici cantano dei pezzi musicali simili a “canzoni”, probabilmente ispirati ai disegni e alle poesie; e devo dire che, contrariamente a quanto accade di solito, questo disco non è solo un inutile accessorio, anzi. Questi giovani cantano molto bene e sanno usare con sapienza i loro strumenti musicali: purtroppo il pinökel di plastica trasparente che servirebbe a mantenere agganciato il disco nella sua sede corretta era rotto, sicché non ho potuto far altro che gettare il simpatico disco nella spazzatura. Peccato, perché non era niente male.

bocia

La soluzione, prossimamente…

Thanks (oh! so many thanks!) to Franz Penausea for the first part of this puzzle, and thanks to the Ficient for the whole idea.

Estate duemilaeundici, i manifesti annunciano, tra Málaga e Granada, concerti di ZZ Top, di Alan Parsons Project, e anche di Tom Jones. Il mio pensiero corre dietro ad Amy Winehouse, questa benedetta ragazza finalmente uscita del tunnel della droga, e stavolta per sempre. Mi sforzo per cinque minuti buoni, ma non riesco a pensare niente di speciale. Gli Alan Parsons Project li davo per sciolti da qualche decennio, e invece suoneranno a Motril tra una settimana. D’altronde non mi sono lasciato scappare gli Scoprions, un paio d’anni fa; niente di speciale neanche loro. Giusto per dire: li ho visti.

Canzoni consigliate: L’ufficio in riva al mare, di Bruno Lauzi. Ma anche i primi due album solisti di Syd Barrett, lui sì uno speciale. O riascoltare, per bene, gli Area, cercando magari di capire.

Caro Vasco, ti abbiam sempre apprezzato e anche voluto bene, ti abbiam persino idolatrato a suo tempo, quando era giusto farlo; ma adesso per favore, smetti di fare altri dischi. Questo pensiero, a dire il vero, lo avevamo formulato già un 25 anni fa, quando pubblicasti Cosa succede in città. Ci scordammo di comunicartelo, e tu sfornasti qualche altra bella canzone, come il Tango della gelosia, e poche altre. Lo stesso pensiero, ora che ricordo, lo avemmo anche alla metà degli anni ’90, ma di nuovo perdemmo l’occasione per fartelo sapere, e poi ci regalasti perle come Sally, o L’una per te, fianco a fianco con autentiche porcherie che non voglio nemmeno ricordare (gli amici, lo sai, se son amici han da essere onesti e diretti). Son passati altri tre lustri; l’ultima canzone decente (decente non so, so che a me piace) che hai scagacchiato è Siamo soli: del 2001. A questo punto, se non ci arrivi da solo, è proprio il caso di dirtelo: caro Vasco, ti abbiam voluto bene, e molto, ma per favore, basta, smetti di fare altri dischi.

Caro Vasco, ci son là fuori un sacco di personaggi che non t’hanno amato mai, che ti considerano poco più (o poco meno) che un buffone, che mai t’hanno capito, che han fatto del tuo personaggio  così contradittorio e ruvido un fantoccio su cui sputare il loro stupido livore; gente che non t’ha capito mai e che pensa di aver capito tutto; gente che ti considera una specie di Ligabue sott’alcol, o peggio. Insomma: gente che non ti apprezza e dice cose brutte su di te. Caro Vasco, non regalare a questi poveretti altri argomenti a sostegno delle loro sciocche tesi: caro Vasco, per favore, smetti una buona volta di fare dischi. Dai.

emmenthalPost dedicato all’amico Corrado B., emigrato in Svizzera per suonare il clarinetto basso.

La Svizzera, nota anche come Confederazione Elvetica, fu costruita in tempi non sospetti ai piedi del noto vulcano Vesuvio: situazione solo potenzialmente pericolosa in quanto questo vulcano, come tutti gli svizzeri, non ama lavorare ed erutta molto raramente. Per secoli l’economia e l’immagine della Svizzera nel mondo si sono basati sulla canzone svizzera: basti pensare ad Enrico Caruso, unico tenore con problemi alla prostata a cui negli Stati Uniti hanno dedicato una serie di francobolli. Purtroppo dalla metà degli anni ’70 gli svizzeri abbandonarono questo modello di sviluppo e si orientarono verso il furto di autoradio, la cocaina, e gli articoli di lusso taroccati. Questo cambio direi quasi esistenziale fu dapprima osteggiato, ma poi ampiamente favorito dalla cosiddetta “camorra”, una specie di società segreta che governa i destini della Svizzera praticamente da sempre. Intere fortune furono edificate in pochi anni sul furto di autoradio, fiumi di denaro cominciarono a scorrere senza controllo, finché un giorno venne annunciato l’acquisto, presso il bar-tabaccheria Hemingway, di Diego Armando Maradona. Con Maradona la Svizzera vinse i suoi primi (ed unici) due scudetti nella specialità sportiva del “calcio”, ma fu il canto del cigno. Una mattina la Svizzera si svegliò che Maradona non c’era più. E non c’era più nemmeno la cocaina. E niente autoradio, né articoli di lusso taroccati. Era ufficialmente finita un’epoca.

Iniziò così l’ultima fase della Svizzera, quella della decadenza. La città, privata ormai dell’aura di leggenda che l’aveva circondata per secoli, si dedicò a coltivare mestamente l’emergenza rifiuti ed un timido aumento del 2% annuo dei tumori infantili. Le vecchie e i pazzi sognavano Maradona che dava i numeri del lotto, ma sempre più sbagliati. Intere famiglie, prive di autoradio e anche solo dell’illusione di poter un giorno rubare una vera autoradio, si riversavano la domenica pomeriggio a rubare l’erba sulle scarpate dell’autostrada, mentre nei vicoli risuonava il rumore di lattine vuote trascinate dal vento.

Oggi la Svizzera è una città in cerca di riscatto: qualcuno cerca di reintrodurre la cocaina, ma la concorrenza della Standa, con i suoi prezzi stracciati, non dà scampo; abbandonata anche dalla “camorra” (che ha reinvestito i suoi lauti guadagni in autentici paradisi fiscali), la Svizzera vive di ricordi e di piccoli ortaggi. All’ombra dell’impassibile Vesuvio.

litfiba

– Sì, pronto?

– Pronto, Ghigo, sei te? So’ Piero!

– Piero? che Piero? Ah, scusa, cazzo! Non me l’aspettavo… che? come butta?

– Butta bene, alla grande, ‘ome sempre! C’ho avuto un’idea, c’ho avuto, che se te la dìo ‘un ci ‘redi nemmeno. ‘ndovina ‘n po’? ‘un c’arrivi? Ma vvia, si rifondano i Litfiba, dio bonino, ‘he so’ trent’anni giusti giusti, si torna on the roadde, ‘ome una volta. ‘he ti sembra? si fa? eh?

– Piero, calma un attimino, eh… a parte che non ci parliamo da diec’anni, ma che sei matto?

– O Ghigo, ‘un ti riòrdi ‘uanta fìa s’aveva attorno?

– Sì, Piero, certo, ma vedi…

– O Ghigo, ‘he ti succede? ‘un ce penzi mai a ‘uegl’anni, s’era i migliori, s’era; artro ‘he i Neramaro, i ‘anadians

– Piero, ao’, ti vuoi calmare? che ti succede a te? c’è qualche problema?

– Problema? te tu sei matto! Ma ‘uando mai…

– E quindi?

– O Ghigo… a te te lo posso di’… butta mìa tanto bene, sa’? Te lo devo di’, ‘un ce la fo più. So’ finito… ma te tu lo sai ‘he m’è successo giusto ieri? Me stavo a ‘ncrocia’ du’ belle figliole, proprimmezzo a Ponte Vecchio, e siccome te tu lo sai ‘ome so’ fatto, me so’ provato a piglia’ ‘n po’ di portamento fiero, te lo riòrdi ‘ome si faceva noi pe’ acchiappa’… e ‘uelle, nulla, ‘un mi ‘acano punto, e mentre passeno sento una ‘he li dice a ‘uell’artra: “Te tu l’ha’ visto ‘uel bischero? ‘he è l’imitazione di Piero Pelù?“, e l’artra ‘he ci risponde: “Piero Pelù ‘hi? ‘uello dei Pooh?“.

– Piero…

E c’ha raggione i’ mi’ agente, ‘he dice ‘he piglio dippiù a fa’ lle serate ‘n discotea ‘ome sosia di me stesso… Ghigo, amìo mio di tutta la vita, ‘un ce la fo più! Penza, si riomicia tutto daccapo, si torna grandi…

– Piero, io c’ho mal di schiena, non lo so se reggo ancora certi ritmi…

– Ghighino bello, dimmi di sì, ‘ome ‘na volta… io solo se ci penzo, mi viene dentro tutt’un’energia, una forza…

– Piero, non so cosa dire, mi confondi… potremmo provare, ecco, con un disco, e magari quattro date, tanto per vedere…

– E io lo sapevo ‘he i’ mi’ Ghighino bellino alla fine diceva di sì. O Ghigo, monta la batteria, ‘he ‘n cinque minuti sono da te.

– Piero, io suono la chitarra.

– Eh? Sì, si, ‘ome tu vuoi. Volo…

amici

felix lalùFelix Lalù è un personaggio che ha iniziato a girare per Trento quando io avevo ormai smesso. Per cui non ci siamo mai conosciuti, e forse è un peccato, ma alternative non ne vedo. Mi fossi fermato a in Trentino forse avrei conosciuto Felix Lalù, ma mi sarei perso di dormire in spiaggia intere estati. Oppure avrebbe potuto Felix Lalù iniziare prima a girare per Trento, per conoscere me, ma magari sarebbe stato poco più che un quindicenne, e mi avrebbe fatto un po’ schifo. Insomma, tanti giri di parole solo per dire che 1. ho sempre pensato che fare un’intervista fosse una cazzata, basta fare delle domande; 2. non la penso più così.

Dobbiamo quindi prima conoscerci, rompere il ghiaccio, perché io personalmente di Felix Lalù so solo quello che butta nei suoi blogz e nelle sue canzoni.

Ruphus: Felix Lalù e la Piccola Orchestra Felix Lalù sono la stessa cosa? O la Piccola Orchestra Felix Lalù è Felix Lalù con qualcos’altro? Cosa?

Felix Lalù: Partendo dal presupposto che sei quel che fai no? Allora La Piccola Orchestra Felix Lalù è un gruppo fatto di una persona più altri due che ci sono ma non proprio nel vero senso della parola: questi due sono Miroslav Fagocevic al contrabbasso e Florian Egger alla fisarmonica. Poi alle volte si aggiungono altri musicisti. Quest’anno sono stati una sessantina. Non tutti la stessa volta. Felix Lalù invece è solo quello che scrive sul blog e che una volta faceva anche delle cose con l’arte e le mostre finchè le mostre non gli hanno rotto il cazzo e allora più o meno basta ma in realtà è colpa che non c’ha tempo. Poi c’è La Ostia – Registrazioni Artigianali che è quella che fa i video e che anche produce La Piccola Orchestra Felix Lalù. Esiste un rapporto di amicizia e puranche di mutua sopportazione tra queste persone che fanno cose. A volte le confondono, ma se le confondono di solito si offendono e allora sguinzagliano i cani affamati e addestrati a mordere le parti infime blablabla.

ostiaR.: Felix Lalù fa un sacco di cose: se vai sul suo blog, vedi che ha in programma concerti da qui al marzo a venire; ha scritto un libro, o almeno mezzo; organizza cose; ha un sacco di idee e le mette in pratica. Ovvero sembra una persona costantemente ossessionata dal “fare”. Cosa ti spinge a tanto attivismo? L’insoddisfazione per lo stato di cose presente o una voglia di autoaffermazione quasi superomistica?

F.L.: Oh, no, niente affermazione, anche se il superuomo di Nice è un bell’esempio cui aspirare volendo per forza aspirare a qualcosa. Se volessi affermarmi imparerei a fare qualcosa bene e farei solo quello no? Invece di star li a far di tutto senza sapere fare un cazzo a volte è frustrante, fa molto Quijote. Qui in Trentino lo chiamano “bon temp“, è il tempo del non lavoro, il tempo in cui fai che cazzo vuoi. Mi piace far che cazzo voglio.

R.: Parliamo di droghe. Legali, ovviamente. Fumi? Che marca? Quante?

F.L.: Niente, solo quando sono ubriaco e solo tabacco. Le sigarette son schife proprio.

R.: Parliamo di droghe. Legali. Cosa bevi? Quanto?

F.L.: Mi piace il rosso. E anche il resto.

grappaR.: Parliamo di droghe. Illegali. Metti per esempio che vai in casa di uno e ti offrono una grappetta, di quella che “la fa mio zio, di strabauz“: come ti comporti? Attento a come rispondi: se accetti il grappino puoi essere accusato di ricettazione; se te lo bevi, di distruzione della prova di un reato; se poi dici “mmm, che buona“, è apologia di reato; se dai qualche consiglio tipo “potresti aromatizzarla con un po’ di rucola“, e l’anno dopo fanno la grappa come hai detto tu, beh, concorso quanto meno esterno in associazione a delinquere non te lo leva nessuno. Quindi?

F.L.: Se vieni a casa mia c’è quella che fa mio padre più tutte le erbe che ci vuoi mettere. Mai comprato grappa in vita mia, e quella al bar è sempre un po’ slavata.

R.: Parliamo di musica. C’è una canzone di Felix Lalù che mi piace una spanna sopra le altre. Si tratta di Le Lu La Lu. L’ho ascoltata migliaia di volte, e continua a sorprendermi. Soprattutto quando inizia così, all’improvviso, magari con lo stereo spento. Qual’è il segreto di questa canzone?

F.L.: Il ritornello è rubato a una canzone dei International Noise Conspiracy, il gruppo nuovo del cantante dei Refused. Solo quel pezzo in realtà probabilmente è una spalla sopra le altre perché è l’unica con un testo che non è un elenco.

R.: Chi è la Nia de los Gorgojillos?

F.L.: È la mia compagna d’appartamento, canta solo per me perché si vergogna.

R.: Saresti capace di scrivere un’altra canzone altrettanto bella e coinvolgente? Se si, cosa aspetti?

F.L.: Beh, questa è semplice. Aspetto l’aspirazione.

R.: Parliamo di musica. Parliamone (risposta libera)

F.L.: La musica è fica, ma non bisogna star lì tanto a menarsela sulla musica. Meglio farla che parlarne. È come quando racconti al tuo amico di quando ti sei fatto quella, in confronto a quando invece te la sei fatta davvero. Non c’è paragone.

bastarockR.: Parliamo di libri. Tu ne hai scritto uno, o almeno mezzo. Non sono corso a comprarlo perché, verosimilmente, la prima libreria che immagino possa averlo a disposizione si trova a circa chilometri duemila dal mio domicilio abituale. E poi, perché nasconderlo, sto aspettando il giorno in cui saranno le case editrici a mandarmi, gratix, i loro prodotti, affinché io ne parli bene. Per cui parlaci un po’ tu di Bastarock. L’underground dei Bastard Sons of Dioniso. Prova a farci sentire come se il libro lo avessimo già letto, cioè migliori di prima.

F.L.: Bella questa. La gente vede i gruppi suonare nel momento in cui suonano. Da qualche anno vede i MySpace, sentono la musica, vedono i video, bene. Poi leggono le biografie in cui di solito il gruppo racconta in che anno è nato, quali sono i componenti, quanti concorsi hanno vinto, quanti dischi hanno pubblicato, a che gruppone hanno aperto alle quattro del pomeriggio. Ecco nel libro non ci sono tutte queste cagate che si trovano già li e che, obiettivamente, non gliene frega un cazzo a nessuno. C’è una cosa che la gente non vede. È il lavoro che c’è dietro a inventarsi un nome, a cercare la gente con cui suonare, a inventarsi una canzone, a darle una forma con altra gente, altri musicisti che hanno tutti gusti diversi (si spera). Ma anche a trovarsi una sala prove, a caricare e scaricare e poi ad andare in giro a far concerti. Perchè poi lì entri in contatto con una fauna di manzi beoni e gente assurda che fa musica o la va ad ascoltare. La gente non sa cosa vuol dire suonare in giro come facciamo noi. Magari è una cagata, ma è divertente. Ecco, nel libro ci sono queste cose qui. Ah, il libro è questo.

R.: Parliamo di musica. Trentino, terra che rima con vino, certo, ma anche culla di alcuni progetti “laterali” di grandissima levatura. Ho detto “laterali” per dire una cosa che un classificatore di dischi molto pigro potrebbe etichettare come “demenziale”, ma tu ed io sappiamo benissimo quanto questo vocabolo sia restrittivo e castrante. Stiamo parlando dei Capelli di Cesare Ragazzi, stiamo parlando dei The Ficient, dei Supercani e, ovviamente, di Felix Lalù. Qualcosa che va cioè ben oltre il “demenziale”, nato in una terra famosa al mondo unicamente per il suo concilio (concilio che tra l’altro è stato uno dei maggiori assembramenti di puttane dell’era pre-televisiva). I Capelli di Cesare Ragazzi, al pari di Platone, non hanno lasciato traccia documentale ufficiale della loro attività: tu sei in possesso di qualche nastro-pirata sopravissuto all’oblìo dei tempi? me lo passeresti?

F.L.: Se c’è una cosa di cui mi posso beare nella vita è quella di aver salvato dall’oblio I Capelli di Cesare Ragazzi. Quando ho cominciato a frequentare i Supercani, dei geni a cui devo quasi tutto quello che so fare ora, si parlava dei Capelli, ma Gianluchi era restio, sai, lui le cose passate le mette via. Boris mi ha passato le cassettine e sono state una folgorazione. Le so a memoria. Mi son messo li e ho digitalizzato pezzo per pezzo tutte le cassettine. Se vuoi te li mando. I Capelli di Cesare Ragazzi per me sono stati importanti quanto i Rage Against the Machine. Una roba del genere dovrebbe essere insegnata nelle scuole, altro che balle.

R.: Parlaci del tuo ultimo disco / del tuo prossimo disco (a scelta)

F.L.: L’ultimo lo scarichi gratuitamente da qui, c’è poco da dire ma molto da ascoltare. Qui c’è anche lo spot. Il prossimo sarà sicuramente più rock, ma forse anche no.I pezzi nuovi ci sono, basta prendersi il tempo per registrarlo.

R.: Bestemmi?

F.L.: Volentieri.

R.: In privato o anche in pubblico?

F.L.: Anche in pubblico ma poi mi vergogno.

R.: Sei di quelli che preferiscono dire Porcozio o Porcodue?

F.L.: Che gusto c’è? Al massimo Ostia. Quello tanto. Ultimamente ho in voga DioPorcoDio ma in adolescenza col mio socio Roberto passavamo le ore aspetttando che ci raccattassero in autostop inventandoci bestemmie. Tra le migliori: Dio violentatore di negretti, Dio scandinavo, Dio narcotrafficante, Dio nudo in una valle di gay. Poi, come dice il mio socio, “dio è come il nero, sta bene con tutto“. Dio sbadila merda mi sa che esisteva già, ma pensavamo di averla inventata noi. Beata gioventù.

R.: Già. A me piaceva, a suo tempo, pensare di aver inventato Dio straripa merda, e magari l’avevo proprio inventato io. Ha un futuro Felix Lalù? Quale?

F.L.: Ha un presente per il momento. Non è che sto lì a dirti No Future, però in fondo chi se ne incula. Va dove ti porta il clito (cit.)

R.: Cosa ne pensi dei Canadians?

F.L.: Bah, boh. A me i gruppi mezzi acustici mi son sempre sembrati un po’ pacco. Me compreso.

R.: Ciao e grazie.

F.L.: Oh, grazie, la mejo intervista che mi abbiano mai fatto.

Iersera, complice un complesso concorso di concause, sono approdato al Chiri’n’go del Chamán, che stavano suonando gli Ea!. Io non lo sapevo mica che la cantante di questo simpatico complessino da spiaggia era una vecchia. Somiglia abbastanza alla Rosa che mi fa l’orlo ai pantaloni, solo che la Rosa, per qualche storia sanitaria sua, non si capisce un cazzo quando parla, che biascica tutte le parole. Questa invece (al secolo Pilar “La Mónica”), ovviamente non biascica, e canta anzi bene, come nei dischi, ma a me, vedere ‘sta vecchia in calzamaglia viola saltellare sul palco mi ha un po’ smontato. Poi possiamo anche discutere del fatto che le vecchie possano o non possano avere il diritto a cantare nei complessini, ognuno è libero di pensarla come vuole e non sarò io a scagliare la prima pietra, però ecco, a me peronalmente mi ha smontato abbastanza. Per cui ho bevuto il mio Tequila Sunrise, ho fatto finta di salutare a questo e a quello, e me ne sono andato.

Ora, la prossima volta che porterò alla sarta le mie mutande da rattoppare, starò molto attento, e sicuramente in un angolino sconosciuto della mia mente sentirò piccoline e leggere le note di Agua de limón, e mi spunterà un perfido sorriso di cui la Rosa ignorerà sempre origine e significato.

Magari capita anche che uno va fino a Cartagena (e vabbè, mica dall’altra parte del mondo, d’accordo) per vedere un concerto della Concha Buika. Un po’ per non perdere il mio ritmo vertiginoso di almeno un bel concerto ogni paio d’anni. Ma soprattutto perché la Concha Buika è oggettivamente una delle pochissime persone capaci di farmi muovere il culo.

Hiromi Uehara: su di giri

Magari capita anche che uno apprende con sconforto che gli tocca di sciropparsi, come gruppo spalla, un certo Hiromi Quartet, e la foto e il nome non lasciano scampo: si tratta di roba giapponese. Allora: io non so parlare di jazz, per cui ve la racconto un po’ così come viene. Risulta quindi che di giapponesi ce n’è solo una, tal Hiromi Uehara, pianista. Che è una tipetta gialla vestita da gattara e pettinata con le bombe a mano, che saltella come un grillo tra un gigantesco pianoforte a coda (gigantesco: grande normale, ma lo sembra di più perché lei è piccolina) e altre tastierine, alcune rosa. Notevoli le scarpettine d’argento. Gli altri erano un bassista inglese perfetto, alto, con un berretto da bassista perfetto, stile Saturnino, velocissimo e virtuosistico. Sul chitarrista, americano, c’era un errore, in quanto era pettinato e si muoveva come l’amico Patrick, che come tutti sanno suona il saxofono. E saxofono a parte, sembrava un po’ incartato, probabilmente l’hanno contrattato all’ultimo momento senza neanche fargli un provino. Mah. Del batterista non ricordo un granché, era un brasiliano, credo, e vestiva un basco da batterista/percussionista molto corretto. Detto questo, se dobbiamo parlare della musica, c’è poco da dire: una bella botta d’energia. C’è dentro parecchia roba, come sempre, e non sarò certo io a fare né un nome né un paragone. Il solito misciotto in cui trovi di tutto, dal ragtime ai maestri del jazz elettrico, passando per il rock progressivo, il funky e i ritmi latini. Il tutto ad altissimo livello, e ad altissima velocità. Insomma, e-mule, torrent o Amazon, come volete voi, è roba che merita l’ascolto e anche l’acquisto.

Concha Buika: giù di corda

Magari capita anche che nell’intervallo tra i due concerti Ruphus si beva un paio di bicchieri di vino o tre. Quando torno in sala mi sprofondo nella mia poltroncina pregustando libidinosamente un evento che inseguivo da qualche anno. Chiudo anche gli occhi, e dopo due minuti mi sento prendere dallo sconforto: che mi sia ubriacato troppo? Com’è che non mi arriva niente di niente, nessuna emozione, nessuna vibrazione? Apro gli occhi e quello che vedo è una negra vestita dentro un enorme sacco grigio e nero che biascica rovinosamente le canzoni del suo  ultimo disco; e tra un pezzo e l’altro farfuglia frasi di circostanza sulla magia del posto eccetera; e che soprattutto fa calare vertiginosamente il contenuto di una bottiglia che di acqua certo non è. Signori, quella che è ciucca marcia è lei, la Concha. I musici si affannano, hanno voglia, provano loro a tirar su le sorti di un’esibizione ai limiti del grottesco, ma non c’è niente da fare. Rapidamente cominciano a svuotarsi file intere di poltroncine, quando da tempo i biglietti erano esauriti in prevendita. Finita, come da contratto, la presentazione di El último trago, il pianista prova ad attaccare un pezzo di quelli famosi, ma la Concha gli fa segno che no, scuote la testa, una mano, non ce la fa proprio; la bottiglia è vuota. Rimasta sola sulla scena, con un ultimo sforzo intona una versione a cappella di Ojos verdes, raccoglie i suoi applausi di circostanza e sparisce. Bella merda.

Magari capita anche che dopo, fuori dal teatro, ancora perplessi su ciò cui abbiamo assistito, ci si avvicinano il bassista e il chitarrista della giapponesina, e ci chiedono se abbiamo da fumare. La Sarlavia gli dà un paio di cannoni e quelli se ne vanno contenti.

Io ricordo che quando lavoravo in Gest i pianoforti li microfonavamo con due AKG di quelli importanti che stavano ognuno in una scatoletta tutta per sé. La Hiromi di microfoni ne usa tre. Che avanti questi giapponesi!