polloChe poi, più o meno, dovrebbe essere il mio più antico ricordo databile con certezza: avevo due anni e tre quarti, stavo delle ore ad aspettare in ospedale perché doveva nascere, o era appena nata, mia sorella. Faceva caldo e mi annoiavo, e mio padre, per distrarmi, mi disse: “Tu aspettami qui, che vado a prendere i bruttimabuoni, torno subito” (spiego per i fuori regione: trattasi di dolcetti alle mandorle). In quella passa mia zia Cicci e, vedendomi lì soletto, chiede di mio padre. “È andato a prendere…“, e subito mi blocco, perché non mi viene la parola bruttimabuoni, sentita per la prima volta pochi minuti prima. “È andato a prendere una cosa da mangiare, ma non mi ricordo come si chiama“, spiego allora tutto preciso. E la zia: “Una cosa da mangiare? il pollo?“. Ricordo perfettamente che la fissai con gli occhi sbarrati, perché non volevo credere a ciò che avevo udito. Il pollo? come il pollo? secondo te posso aver dimenticato come si chiama il pollo? davvero hai potuto pensare una stronzata del genere?

Fu un lampo, che mi cambiò per sempre. Capii in un istante che anche un grande, un adulto, può essere uno stupido. Smisi di credere nei grandi, e a ruota in molte altre cose. Mi feci cinico ed arrogante. Avrei passato il resto della mia vita ad imparare a perdonare gli stupidi, non sempre riuscendoci.

Ed insomma, quel giorno d’estate Ruphus (di anni due e mesi nove) stende al tappeto il resto del mondo, malamente rappresentato dalla vecchia zia. Comprensibile il decollo verticale della sua autostima, ed il gonfiarsi a dismisura del suo ego, pari solo al disprezzo immenso che ha poi sempre provato per chi diceva “perché sì“. O per quegli altri, quelli del “l’ha detto la maestra“, e quelli del “l’ha detto il telegiornale“.

I bruttimabuoni, come succede con molti prodotti tipici (specie alimentari), ciascuno pensa che sono originari della propria terra. In Toscana, dove hanno più d’un problema con la lingua italiana, li chiamano “bruttiboni” e credono che siano originari di Prato.